DOGMAN

La solitudine di un cane cacciato via dal branco

Il film della maturità per Matteo Garrone dove forma e contenuto si fondono

In una periferia sospesa tra il villaggio western di “leoniana” memoria e le borgate pasoliniane (ma guarda un po’) dove vige la legge del più forte, del più grosso, di chi ce l’ha più duro (ariguarda npo’), vive un ometto bonario, amabile e onesto (almeno ci prova eh) che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani e l’amore per la figlia Alida.
Marcello (l’attore o il personaggio?) cerca sembra accontentarsi di essere “voluto bene da tutti” e di qualche bevuta e vizietto con gli amici di quartiere. Marcello, come tutti in questo villaggio astratto e allo stesso tempo vivido, è costretto a convivere con il bullo di zona: l’ex pugile cocainomane, ludopatico, violento e per niente piccolo Simoncino (effamolo più cattivo no?). Marcello, dopo l’ennesima sopraffazione si decide a riaffermare la propria dignità.

Termina all’incirca in questo modo la sinossi presente nel pressbook di “Dogman” di Matteo Garrone.  L’abbiamo infarcita di parentesi (ironiche ma che non fanno ridere e questa è l’ultima eh) non per autocompiacimento ma semplicemente per creare dei link mentali con alcune riflessioni che affronteremo più avanti e per giocare “formalmente” con un concetto fondamentale per capire il film di cui parliamo oggi. Quale concetto? La dialettica forma/contenuto. Queste coincidono perfettamente nel film. Garrone è riuscito a far convivere magistralmente le contraddizioni che tanto ama sia dal punto di vista narrativo che formale, appunto.

In questo film convivono l’ironia amara e la miseria umana, la gentilezza e l’istinto di autodistruzione, la violenza e l’amabile dolcezza. Questo film funziona per due “semplici” motivi: la forma stilistica della messa in scena e l’interpretazione fantastica di Marcello Fonte che rende più che mai umano e reale un personaggio che rischiava di diventare una macchietta o un santino su celluloide.

Certo il lavoro di scrittura dei sodali Ugo Chiti e Massimo Gaudioso si vede e si sente per tutto il film anche se alcune situazioni sono ormai onnipresenti e standardizzate nel cinema italiano. Il montaggio del sempre ottimo Marco Spoletini riesce ad essere poetico e allo stesso tempo invisibile. La fotografia di Nicolai Brüel è semplicemente perfetta e infine la scenografia di Dimitri Capuani, nonostante sia iperrealistica, crea un alone di atemporalità astratta, un’atmosfera fondamentale per la buona riuscita del film. Tutta questa sapienza tecnica è valorizzata, e portata a livelli alti per il cinema italiano attuale, dal lavoro superbo di regista e attori.

Contraddizioni narrative e forma cinematografica coesistono grazie a inquadrature (spesso lunghi piani sequenza)  avvolgenti, girate spesso a mano, ma alcune volte totalmente fisse o con tecniche miste. Il supporto su cui è posta la camera non importa, perché in base alla scena e al punto della storia, Garrone sa scegliere perfettamente il mezzo sul quale far viaggiare o sostare la macchina da presa.

Le inquadrature hanno un solo centro, un solo focus: Marcello. E pur rimanendo ancorate al realismo, queste si fanno espressioniste, diventando quadri legati allo stato d’animo di Marcello. Il film non è “visto tramite il punto di vista del protagonista”, il film è “il punto di vista stesso del protagonista”. In questo film, lo “zavattiniano” pedinamento della realtà (diventato salvo rare eccezioni l’unica forma espressiva del cinema contemporaneo italiano) lascia spazio a una sempre maggiore “soggettivazione” della macchina da presa che assume il punto di vista di Marcello evitando però l’uso della soggettiva, ma utilizzando semi-soggettive). Un’impronta estetica discreta, matura e sobria .

Garrone cerca di sottolineare la differenza con cui Marcello e Simoncino occupano lo spazio, e lo fa utilizzando campi a due o campi e controcampi che accentuano lo scarto di fisicità e moralità tra i due personaggi principali.
I due potrebbero assomigliare ad una coppia proveniente dalla commedia slapstick (Garrone dice di aver ritrovato qualcosa di Buster Keaton in Marcello fonte) ma è il contesto che rende nera, grottesca e angosciante la storia. L’ambiente è poi il terzo co-protagonista del film.
Come in passato Garrone si concentra sulle maschere e i fisici dei personaggi e qui il corpo e il viso “antico”, a detta dello stesso regista, dell’attore di origini calabresi, è l’epitome di questo modo di lavorare con gli attori.

Marcello fonte con un’interpretazione perfetta in cui l’uomo attore si fonde con il personaggio, ci trasmette tutta la naturalezza e la complessità di questo uomo imperfetto ma buono che cerca di ammansire animali ed umani. Sembra riuscirci addirittura anche con Simoncino, ma è soltanto una mera illusione. Il personaggio che ha una particolare fisicità (grande lavoro sulla voce e sulla postura) viene trascinato in un inferno di tentazioni e atti di sottomissione. Marcello cerca di regalarsi qualche attimo di pace quando riesce a stare qualche ora con la figlioletta con cui condivide la passione per le immersioni. Fonte, vincitore a Cannes per la migliore interpretazione maschile, riesce ad incarnare la sempre meno celata sofferenza del suo personaggio e lo mantiene umano anche quando, ormai stanco di continue ingiustizie e vessazioni,  questi reagisce cercando di affermare la propria dignità. Una volta spersonalizzato e traumatizzato dal quasi inevitabile trauma finale, Marcello, vuole quasi disumanizzare la propria vittima rendendo l’omicidio quasi un atto dovuto, come una sorta di sacrificio di un animale sull’altare dell’inclusione sociale, quella società che era il suo unico appiglio e che adesso lo rifiuta. Persa l’umanità, il povero Marcello si ritroverà solo come un cane o come un Cristo (scegliete voi come interpretare il finale) a portare il peso del proprio isolamento e della propria colpa ormai sempre più insopportabile.

Azzeccato il supporting cast composto da Adamo Dionisi (il proprietario del compro oro), Francesco Acquaroli (il gestore della sala scommesse), Mirko Frezza (il pusher) e il protagonista di “Reality” Aniello Arena che qui interpreta il poliziotto.
Ma è Edoardo Pesce, perfetto nei panni del bullo di periferia, che riesce a tenere sulle spalle il pesante fardello che ogni antagonista deve portare con sé per far filare il film.
Durante le varie interviste Garrone non si stanca mai di sottolineare quanto sia stato fondamentale l’apporto di Edoardo Pesce per costruire un “cattivo che funzioni” e che arricchisca lo sviluppo del personaggio principale rendendo avvincente ed efficace, anche una trama minimale come quella di “Dogman”.

Ciò su cui vogliamo porre l’attenzione nello sproloquio su questo ottimo film, è la pura crasi formale e dialettica tra lo sguardo oggettivo della camera e quello soggettivo del personaggio interpretato da Marcello Fonte. Quella che Pasolini definì soggettiva libera indiretta compie una piccola evoluzione grazie alla sensibilità pittorica del regista, i mezzi moderni utilizzati e alla commistione di generi. Tornando a girare nel Villaggio Coppola di Castel Volturno, set de “L’imbalsamatore” e in parte di “Gomorra”, Garrone immerge la narrazione in uno scenario da vecchio western dall’ambientazione sospesa (il film potrebbe esser ambientato negli anni 60’/70′ o in un futuro prossimo). Oltre alle dinamiche di tipiche del neo-Western, vengono messe in scena situazioni e approcci tipici del neorealismo mischiati a risvolti “revenge” legati essenzialmente al fatto di cronaca a cui è ispirato il film. Ma chi si aspettava sangue, violenza fisica e adrenalina sicuramente rimarrà deluso. Qui la violenza è soprattutto psicologica e l’ansia legata ai colpi di scena qui è pura ansia sociale.”Dogman” ha infatti poco a che vedere con la vera storia del toelettatore di cani Pietro De Negri, ai più noto come il “Canaro” che nel 1988 uccise il suo aguzzino Giancarlo Ricci dopo averlo orribilmente torturato.

Matteo Garrone, tornando alle atmosfere cupe degli esordi senza però superare in toto capolavori come “Gomorra”, “Primo Amore”, “L’imbalsamatore”, ci catapulta all’interno di una storia che è molto di più dell’eterno conflitto tra il prepotente e il perseguitato. Si tratta di un film che ha come punto centrale di riflessione la condizione di solitudine in cui ci troviamo, in quanto esseri umani che cercano disperatamente di sentirsi parte di un gruppo, di una comunità, di una “narrazione comune” che possa dare senso alla vita e alla bestialità degli impulsi umani.

L’ultima sequenza del film è emblematica in questo senso: dopo l’involontaria, viscerale e disperata vendetta, Marcello cerca subito l’approvazione dei suoi ex amici, purtroppo questo tentativo sembra avere un effetto soltanto nella sua testa.
Nella realtà rimane solo la desolazione, la colpa e la solitudine.

L’ultimo sguardo di Marcello è il finale perfetto per questa storia che è una metafora della socialità contemporanea polarizzata ma anche fredda e spersonalizzante. Come un cane che porta la preda al proprio padrone, Marcello cerca approvazione nei propri simili, vuole ritrovare la sicurezza che aveva stando dentro al branco, ma si ritrova solo, frastornato e senza più nessuno che gli vuole bene.