“MIDSOMMAR – Il villaggio dei dannati”

L’evoluzione dell’horror moderno

“Misdsommar” è il secondo film di Ari Aster che, secondo una definizione dello stesso autore è “un film su una separazione mascherato da folk horror”. Un film sull’elaborazione del lutto, sulla dipendenza affettiva e sull’importanza della condivisione dei sentimenti con chi ci circonda. Un horror rarefatto e introspettivo, l’ennesima evoluzione dell’horror moderno.

La giovane Dani stenta a riprendersi per un grave lutto familiare, questo dolore diventa l’unico collante che la lega ancora a Christian (nome per nulla casuale), fidanzato distaccato e debole caratterialmente. I due, insieme agli amici di Christian, si troveranno a compiere un viaggio nella Svezia soleggiata di mezza estate.

Come nel suo precedente film (l’ambizioso e a tratti convincente “Hereditary”), il genere horror è per Aster solo un mezzo per compiere una riflessione ad ampio respiro, l’horror diventa quindi il luogo dove è possibile mettere in discussione di diversi approcci alla vita e alla morte, diventa fonte di allegorie sulla natura e la società umana.

Il film non è certo un horror puro e, ai tempi dell’egemonia del jumpscare è una fortunata eccezione, è un film con discreta tensione di fondo dove è pregevole il controllo del ritmo dilatato e psichedelico delle scene più forti. In linea con molti horror degli ultimi anni ( “The VVitch” “The lighthouse”, “Us”, “Get Out”, “It follows”, “Gwen” “Hagazussa” e “The wind”), molti dei quali prodotti da A24 e Blumhouse, vi è la volontà da parte del regista di operare una commistione di generi e di trascendere e trasfigurare gli stilemi del genere horror per raccontare l’evoluzione psicologica di personaggi in risposta a problematiche legate fondamentalmente alla complessità della natura umana.

L’incipit notturno è fulminante, di una forza che ha pochi eguali nel cinema moderno. La lenta entrata nel mondo magico della comunità in cui i protagonisti vengono ospitati è gestita in modo esemplare. Originale la scelta di ambientare un intero horror alla luce del sole. L’oscurità in questo film viene fuori solo dall’animo umano corrotto.

Forse la sceneggiatura ha qualche forzatura, alcuni personaggi sono poco sviluppati o stereotipati mentre la seconda metà del film risulta essere un po’ lenta e prevedibile. Certo la trama potrà sembrare un po’ banale ma ciò che travolge di questo film è il modo in cui la storia viene raccontata. Esemplare la sequenza finale: un climax orchestrato in totale antitesi rispetto alla tradizione horror.

Dal punto di vista tecnico il livello del film è egregio. Degni di nota sono il lento ma ottimo ritmo del montaggio di Lucian Johnston, la bucolica fotografia di Pawel Pogorzelski, la magnificente scenografia dell’esordiente Henrik Svensson (geniale nell’inserimento di Easter Egg e indizi che illustrando gran parte della storia prima che gli eventi accadano) e le musiche cristalline di The Haxan Cloak che fanno da contrappunto all’inquietudine crescente della pellicola di Aster.

Ottima anche la prova della bellissima 23enne inglese Florence Pugh. La sua recitazione trascinante caratterizzata da una mimica facciale strabiliante viene potenziata da una regia sempre molto attenta a nutrire la crescente empatia ed identificazione dello spettatore nei confronti della protagonista.

La regia è caratterizzata da lunghi piani sequenza e movimenti di macchina a volte virtuosi che però, essendo studiati in ogni dettaglio, rendono possibili ellissi temporali e giochi di montaggio notevoli, mai banali e soprattutto organici con la storia che viene raccontata.

Sono molti i punti di contatto tematici tra il primo e il secondo film del regista: il lutto, l’esoterismo, il paganesimo, la crisi in un nucleo di un gruppo di persone unite (nel primo film era la famiglia mentre in questo lungometraggio ad essere messa in crisi, oltre alla coppia, è anche il nucleo di amici che compie il viaggio), l’utilizzo di musica beffardamente allegra nei titoli di coda, l’emancipazione di quella che è la figura dell’eletto, la ritualità e la teatralità liberatoria delle scene madre ed anche la deformità di “Lynchiana” memoria.

C’è chi può pensare che si tratti di poca fantasia del giovane autore, ma a noi piace pensare con un sorriso pieno di ottimismo che forse siamo davanti ad un regista talentuoso che sta crescendo e cercando la sua via. Un sorriso forse diverso da quello con cui si chiude “Midsommar”, perché il sorriso di cui parliamo è ambiguo come è giusto che sia in un film del genere. Un sorriso forse frutto di soddisfazione per una vendetta d’amore, forse emblema di pace ritrovata, sicuramente è il sorriso liberatorio di chi non ha più paura di vivere da solo anche se ha trovato una sorta di nuova famiglia, forse.